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The Legend of Zelda: Ocarina of Time, 25 anni dopo

Il 21 novembre del 1998 The Legend of Zelda: Ocarina of Time esordì su Nintendo 64: 25 anni dopo, ripercorriamo il cammino del miglior videogioco mai realizzato.

SPECIALE di Lorenzo Mancosu   —   21/11/2023
The Legend of Zelda: Ocarina of Time, 25 anni dopo
The Legend of Zelda: Ocarina of Time
The Legend of Zelda: Ocarina of Time
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Nel villaggio dei Kokiri, gli eterni bambini che popolano la foresta più grande di Hyrule, tutti gli abitanti crescono accompagnati da una fatina. Tutti tranne Link, un giovane biondo e dalle orecchie a punta le cui notti agitate sono tormentate da strani incubi. Il 21 novembre del 1998 - almeno per quanto riguarda il territorio del Giappone - anche il piccolo Link ricevette finalmente la visita di Navi, fata che si sarebbe rivelata un Virgilio tascabile pronto a traghettarlo lungo una delle avventure più memorabili mai raccontate in un videogioco. Allora fu pubblicato The Legend of Zelda: Ocarina of Time, uno dei progetti più grandi, più costosi e più ambiziosi cui Nintendo Analysis & Development avesse mai messo mano, con uno scopo e uno soltanto: tradurre nell'era delle tre dimensioni uno dei più complessi incantesimi ad aver fatto la fortuna della Grande N.

Maturato sulle spalle dei giganti, fra l'originale The Legend of Zelda e l'immortale A Link to the Past, il progetto vide la partecipazione di quattro diversi game director - tra cui i leggendari Eiji Aonuma e Yoshiaki Koizumi - tutti volenterosi di rispondere direttamente a Shigeru Miyamoto nella sua ultima volta in cabina di regia, per una forza lavoro totale di oltre 200 dipendenti e un investimento di circa 12 milioni di dollari: si trattava, a tutti gli effetti, del primo colossal prodotto nella storia della compagnia. Progettato, fra le altre cose, durante quello che probabilmente ha rappresentato il momento più importante in assoluto per la casa di Kyoto, ovvero lo spaventoso tuffo cieco nel mondo delle tre dimensioni: se le ombre di Super Mario e di Zelda si stagliavano ormai da anni minacciose sulla concorrenza bidimensionale, l'enorme balzo tecnico avrebbe presto rimescolato le carte in tavola, potenzialmente rovesciando tutti gli equilibri di forza dell'industria.

Esattamente com'era già accaduto tra il 1985 e il 1986, entrambe le IP si affacciarono sulle sponde del Nintendo 64 portando ciascuna una lunga lista di rivoluzioni, introducendo regole e meccaniche destinate a diventare la spina dorsale dei successivi venticinque anni di maturazione del medium. Se, da una parte, i sistemi di Super Mario 64 eressero i dogmi dello sviluppo poligonale e costituiscono ancora il cuore pulsante di tutti i titoli dedicati all'idraulico, il debutto di Zelda nell'orbita delle tre dimensioni gettò le fondamenta dei moderni videogiochi d'azione e avventura, presentando al mondo una ricetta che avrebbe guidato l'evoluzione del settore intero, piantando dozzine dei semi che sono germogliati nelle ramificazioni più amate della nostra epoca.

The Legend of Zelda: Ocarina of Time compie oggi venticinque anni ed è ricordato come uno fra i migliori videogiochi mai realizzati, il migliore in assoluto stando alla media delle valutazioni raccolte su Metacritic, forte di un altisonante "99" che sembra ormai destinato a rimanere eternamente insuperato. Nessuno, al momento della pubblicazione, era pronto per confrontarsi con l'universo costruito da Nintendo dall'altra parte dello schermo, quel regno di Hyrule che vinse la battaglia per il gioco dell'anno in un anno che vide l'esordio di Metal Gear Solid e Half-Life, regalando una forma inedita al concetto stesso d'avventura interattiva.

La prima volta non si scorda mai

La fotografia mentale della parola 'videogioco' genera qualcosa di simile a uno scorcio di Ocarina of Time
La fotografia mentale della parola 'videogioco' genera qualcosa di simile a uno scorcio di Ocarina of Time

Più passano gli anni e più si corre il rischio d'osservare The Legend of Zelda: Ocarina of Time attraverso le opache lenti della contemporaneità, che inevitabilmente fanno sbiadire i colori vividi della pubblicazione originale: la Hyrule che s'estendeva a perdita d'occhio, le lunghe cavalcate in groppa a Epona, le sessioni di pesca accanto al lago Hylia e la scalata di una vetta come quella della Death Mountain, sono oggi parte integrante delle routine quotidiana di qualsiasi videogiocatore, tra sezioni e meccaniche che sono state lentamente abbracciate da qualunque avventura radicata in un vasto mondo virtuale. Ma allora non si trattava di cose normali, di situazioni che capitava d'incontrare con naturalezza una volta spenta la luce e accesa la console. Riprendendo in mano opere sue contemporanee come GoldenEye 007, o magari un Banjo-Kazooie qualsiasi, si ha la sensazione di viaggiare nello spazio e nel tempo, di visitare software alieni, ma questo non accade assolutamente sulle sponde di Ocarina of Time: che si sia appena conclusa una cavalcata nel Velen protagonista di The Witcher 3 o una battaglia nell'Interregno al cuore di Elden Ring, è come se il fantasma del titolo per Nintendo 64 non avesse mai cessato d'infestare i fondali delle grandi avventure, finendo per scorrere direttamente nelle vene delle più grandi produzioni odierne.

Sotto un certo punto di vista questa è stata una piacevole condanna. Che cosa sarebbero oggi i videogiochi se non avessero mai conosciuto Ocarina of Time? Magari avrebbero imboccato una direzione completamente diversa, parlato un linguaggio differente, adottato una grammatica inedita, una che siamo destinati a non conoscere mai. Certamente è stata una condanna per la saga di Zelda, che in seguito alla prima istanza tridimensionale non è più riuscita a liberarsi dalle sue stringenti catene per quasi vent'anni, finché Breath of the Wild non ha compiuto il miracolo spezzando la continuità creativa per imboccare una direzione sì inaspettata, ma pur sempre figlia dell'antica Hyrule di una volta. E nonostante ciò quello spettro resta ancora presente, più ingombrante che mai: persino al debutto di Tears of the Kingdom è sopravvissuta una nutrita schiera d'appassionati per cui "non è Zelda senza i dungeon", "non è Zelda senza l'arsenale di Link", non è Zelda se non è sostenuto dall'assuefacente impalcatura di Ocarina of Time.

L'anima di Ocarina of Time vive ancora oggi nelle più blasonate produzioni contemporanee
L'anima di Ocarina of Time vive ancora oggi nelle più blasonate produzioni contemporanee

La prima volta, tuttavia, ha sempre un sapore diverso. Mai era capitato d'incorrere in un mondo dal respiro ampio come quello che si apriva alle spalle del gufo Kaepora Gaeora all'uscita dalla foresta di Kokiri, quando le pur nude praterie di Hyrule alzavano il sipario su panorami sconfinati, svelando una montagna nascosta dalle nubi da una parte e un imponente castello medievale dall'altra, una criptica struttura circolare in cima a una collina, dei capannelli di alberi dai poligoni frastagliati che si stagliavano contro un tramonto in tempo reale. Mai prima d'allora accadeva di agganciare un nemico e balzargli attorno, arma in pugno, in una danza fluida e ben ritmata, oppure di utilizzare il medesimo pulsante per compiere azioni differenti in base al contesto dello scenario, o ancora di dover tenere conto della gravità, della chimica e della verticalità una volta che si restava bloccati di fronte all'enigma di turno. Allo studio delle innovazioni portate da Ocarina si potrebbe dedicare un'enciclopedia, dall'introduzione del sistema di lock on Z-Targeting che ancora oggi regola la maggior parte dei titoli d'azione fino al sistema di controlli contestuali, dal design tridimensionale dei puzzle fino a dozzine di caratteristiche abbozzate in precedenza che riuscirono finalmente a esprimersi al massimo, come per esempio la presenza della cavalcatura, il ciclo che alterna il giorno e la notte, la struttura non lineare della progressione o la coesistenza di due linee temporali distinte.

Che si tratti di un sistema di specchi pronti a riflettere un solitario raggio di luce contro un blocco di ghiaccio, di pesanti oggetti da spostare per attivare un antico marchingegno, o ancora di utilizzare un artefatto magico che permette di rendere visibile l'invisibile, l'anima di quella particolare Hyrule si è insinuata in dozzine di universi agli antipodi, da God of War a Dark Souls, da The Talos Principle fino a Portal. La sua grammatica costituisce tutt'oggi un manuale onnicomprensivo per realizzare un perfetto videogioco d'azione in terza persona, ma è stata la filosofia ad aver scavato un solco ancor più profondo, quella figlia dell'immaginario originale di Shigeru Miyamoto e dell'adattamento tridimensionale dell'architettura di A Link to the Past: figurandosi nella mente l'epitome della grande opera interattiva, quella capace di catturare l'attenzione del pubblico fin dal primo sguardo, viene naturale pensare alla diapositiva di un grande mondo aperto dagli orizzonti sconfinati e pregno di vita, una fotografia che non s'era mai concretizzata prima di quel 21 novembre del 1998.

Le magie di Nintendo

Sviluppato in modo travagliato e in un momento estremamente difficile, divenne subito un classico
Sviluppato in modo travagliato e in un momento estremamente difficile, divenne subito un classico

Se quella di Shigeru Miyamoto è spesso considerata la mente alveare alle spalle della rivoluzione di The Legend of Zelda: Ocarina of Time, a tirare le redini del progetto c'era prima di tutto Toru Osawa - che era arrivato nella compagnia proprio con il sogno di confrontarsi con Link - poi affiancato dal reduce da Super Mario 64 Yoshiaki Koizumi, da Yoichi Yamada e dall'esordiente Eiji Aonuma; il progetto serpeggiò per anni nei corridoi degli studi, passando per mani illustri come quelle di Takao Shimizu, poi dirottato su Lylat Wars e Pokémon Stadium, come da quelle di Jin Ikeda e dei tantissimi creativi che lo limarono costantemente per regalargli una forma accettabile. Tralasciando la mole di tagli cui l'opera dovette andare incontro, oltre che la tassa imposta dall'abbandono del progetto 64DD, il deus ex machina - come per la maggior parte delle produzioni dell'epoca - risedette proprio in Super Mario 64, la cui codificazione delle meccaniche tridimensionali portò al riavvio di dozzine di lavori differenti, anche fuori dall'orbita di Link: in Rare, per esempio, tutto il lavoro svolto su Banjo-Kazooie fu gettato nel tritadocumenti dopo che gli sviluppatori videro l'idraulico muoversi attorno al Castello di Peach.

Ciascuno dei quattro codirettori si assunse la responsabilità di una sfaccettatura centrale dell'esperienza, dallo scenario narrativo al design dei dungeon, dal sistema destinato a regolare Link fino addirittura alla supervisione dell'amalgama di tutte le meccaniche, una branca spesso sottovalutata cui la Grande N ha sempre dedicato particolare attenzione. Non c'è bisogno di dire che l'opera si rivelò un classico sin dal giorno del debutto, brillando di una luce accecante nel pieno di quella che ancora oggi è ricordata come l'annata più ricca e preziosa nella storia del medium, condividendo il medesimo palcoscenico dei succitati Metal Gear Solid e Half-Life, ma anche di Baldur's Gate, di Starcraft, di Resident Evil 2, di Suikoden 2 e di decine di altre eccellenze. Raccolte valutazioni aliene alla dimensione critica dell'epoca - storici furono il primo perfect score assegnato da Famitsu e quello di EDGE - la Hyrule tridimensionale si gettò nelle mani di un pubblico che si dimostrò fin dai primi battiti straordinariamente cosciente della rivoluzione che gli si stava srotolando davanti agli occhi, accogliendola tacitamente nell'Olimpo dei videogiochi e tracciando il sentiero che ancora oggi non ha cessato di condurla in vetta alle classifiche che assegnano il titolo di gioco del secolo.

25 anni dopo

Che cosa sarebbe successo ai videogiochi se Link non avesse mai estratto la Master Sword?
Che cosa sarebbe successo ai videogiochi se Link non avesse mai estratto la Master Sword?

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito a uno spiraglio di ciò che la saga di Zelda potrebbe diventare riuscendo a staccarsi dallo scheletro di Ocarina of Time, imboccando la nuova direzione esplorata dalla moderna EPD di Eiji Aonuma, rendendo possibile ciò che si credeva impensabile in termini di puro e semplice design del gioco. Ma tale sentimento resta vivo ogni istante in cui ci si confronta con qualsiasi videogioco contemporaneo, ogni volta che si riesce a sbirciare oltre il velo del codice e delle grafiche per scorgere ancora e ancora le stesse fondamenta gettate dalla più grande epopea di Link. Forse, in un mondo parallelo, l'Eroe del Tempo non ha mai estratto la Master Sword accompagnato dalla musica corale del Temple of Time, tracciando un cammino completamente diverso per la crescita di questo ormai immenso medium interattivo. Ma questo è il nostro mondo, e in questo mondo tutte le strade conducono alla Foresta dei Kokiri e a quel 21 novembre del 1998, quando una fatina zelante ha svegliato da un sonno agitato un bambino biondo stretto in un'inconfondibile tunica verde.

Si potrebbero dedicare migliaia di parole, centinaia di pagine all'analisi del videogioco più influente della nostra generazione, alle meccaniche che ha presentato al mondo e alle dozzine di riconoscimenti che ha raccolto lungo il suo percorso, ma niente di tutto quello che si potrebbe menzionare sarebbe in grado di rendere onore a quella magnifica, straordinaria prima volta. Era il 1998 - nei nostri ricordi le serate di gioventù sembrano quasi più calde e luminose - quando all'improvviso divenne possibile esplorare il mondo anche alla fine della giornata, quando si rincasava stanchi, zaino in spalla o valigetta stretta in mano. Allora il televisore CRT apriva uno squarcio su un'altra dimensione, consentendo a milioni di Alice di attraversare lo specchio per vivere una delle più grandi avventure mai realizzate, forse la più grande di tutte.